SUD COREA    1992

COME TROVARE L’AGO IN UN TEMPIO


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Io e Isabella arriviamo con la corriera alle falde della collina. Un sentiero costeggia un torrente con cascatella e laghetto, poi si inerpica e serpeggia in mezzo alla foresta. Dopo 20 minuti di salita a piedi ci appaiono i tetti variopinti del monastero buddhista di Haein-Sa, uno dei più antichi della Corea.

Entriamo attraverso il portico e, sotto lo sguardo severo dei Quattro Guardiani, saliamo di terrazza in terrazza. Nella corte centrale vanno e vengono giovani monaci pelati nelle loro vesti di tela grigia. Visitiamo i templi intorno e i padiglioni dove sono conservate le antiche tavole di legno per la stampa, con incisi i sacri testi buddhisti.

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Alla cerimonia del tramonto manca più di un’ora, perciò anche noi bighelloniamo nella corte, incrociamo i giovani monaci che ci sorridono curiosi. Cerchiamo di comunicare a gesti e in un inglese molto elementare. Ci sediamo in mezzo a loro sui gradini di un tempio. Mi scappa uno starnuto, mi soffio il naso, gesto riprovevole per il bon ton da quelle parti. Ma i bonzi non si scompongono, ridacchiano. Uno sale i gradini del tempio, entra e ne ridiscende con in mano una scatoletta di latta. La apre sotto i miei occhi e mi mostra gli aghi che possono guarire il povero pellegrino raffreddato. Vuoi? Mi fa capire. Voglio.

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Apro i palmi delle mani e li protendo verso l’alto, e il giovane comincia l’intervento sotto lo sguardo di tutti. A uno a uno conficca gli aghi nei polpastrelli e nelle giunture delle dita. Qualche ago si infila bene, ma qualche altro mi punge dolorosamente e produce gocce di sangue. Lì per lì sono interdetto ma subito penso: questi monaci hanno frequentato una scuola di agopuntura e hanno assimilato tutti i principi di quest’arte millenaria orientale. Sono saggi, devo aver fiducia in loro.

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Finita l’operazione, rimango per 10 minuti con le mani martoriate aperte. Intanto cerchiamo di chiacchierare. E quelli, sghignazzando come ragazzini, uniscono gli indici e mi ricordano il “football game” Italia-Corea, finito con una batosta per la nostra Nazionale con conseguente uscita dai Mondiali. Sorrido amaro e mentre sorrido comincio a chiedermi se quei monacelli sono delle persone serie o no. Trascorsi i 10 minuti, il “chirurgo” mi toglie gli aghi dalle dita ancora sanguinanti e, senza nemmeno asciugarli, li ripone direttamente nella scatoletta di latta, pronta per il prossimo malcapitato paziente! Ormai rassegnato, vago per la corte, rimuginando sulla poca serietà di questi santi uomini, quando davanti a me appare un bonzo che, pazzo di gioia, spinto da una bimba, pedala su un mini-triciclo trasportando un bambino sul sedile dietro!

Finalmente giunge l’ora della cerimonia. Qua udiamo il suono cupo del tamburo che percorre la terra, là risponde il suono ovattato della carpa di legno, simbolo dell’acqua. A est si alza il suono argentino della nuvola di bronzo che evapora nell’aria, a ovest il suono vibrante della campana sale attraverso il fuoco e si spegne nel Nirvana.

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I monaci, ora disciplinati, si dirigono in colonne grigie verso il tempio principale. Ci invitano a seguirli. Rimaniamo in piedi in fondo all’ampio vano dove quei monaci, salmodiando con voci cavernose, si inginocchiano, congiungono le mani sopra la testa, si prostrano spingendo le mani giunte in avanti. Due di loro si voltano e ci fanno un cenno con gli occhi. Capiamo l’antifona. Unendoci agli altri, anche noi goffamente facciamo le sacre flessioni, pregando con fervore: Buddha compassionevole e misericordioso, liberaci dai guaritori e preserva la nostra salute tra le insidie quotidiane!

E il raffreddore? Non mi è passato. In compenso, grazie a Buddha, non mi è venuta nessuna strana malattia.