UNIONE SOVIETICA   1983

QUEL BUS PER MOSCA


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Siamo due coppie, io e Isabella, Mino e Luciana. Passeremo le vacanze di Natale insieme in India e Nepal. Compriamo il biglietto aereo più economico, lo offre la compagnia sovietica Aeroflot: Milano-Mosca-Delhi. Gli aerei Aeroflot sono un vero e proprio cimelio storico: linea essenziale, spartana, metallo e plastica giallastra. Sedili stretti, sempre più a ridosso man mano che si va verso la coda. Negli ultimi, per fumatori, i passeggeri hanno le ginocchia piantate contro la spalliera davanti. E poi un odore indelebile di disinfettante ci trapana le narici e ci compenetra: una maledizione che rimarrà su di noi e sui nostri abiti fino alla settima doccia.
Il volo Aeroflot comporta un problema: una volta completata la tratta Milano - Mosca, la coincidenza per Delhi scatta tre giorni dopo. Perciò dobbiamo dormire tre notti in aeroporto in un hotel pagato dalla compagnia. Trasformiamo il problema in un’opportunità: ci procuriamo un visto di transito che ci permetterà di visitare Mosca.

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Aeroporto Sheremetyevo. Sportello Immigrazione. Consegno il passaporto al gendarme all’ombra del cappello con visierona e stella rossa. Dietro il vetro brunito lui visiona, controlla in uno schermo. Poi alza su di me uno sguardo ai raggi x e mi fissa. Abbassa gli occhi sul passaporto. Ripete l’operazione per accertarsi che quello della foto sono proprio io. Fotocopie. Timbri. E alla fine dalla fessura dello sportello sbuca fuori il mio passaporto. Salvo! Posso andare.

Dopo una riposante dormita nell’hotel, il mattino seguente prendiamo un mezzo che ci porti a Mosca, distante una trentina di chilometri. Non è un pullman, è un autobus cittadino stile sovietico, essenziale spartano e antiquato come l’aereo.

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A passo ridotto percorre la striscia d’asfalto rettilinea, intorno si stende una pianura infinita popolata di betulle. Nevica. Fiocchi sottili tra la nebbia imbiancano l’aria e la terra. Il bus è pieno, russe e russi nei loro cappottoni scuri, in testa il colbacco. L’atmosfera è glaciale: silenzio di tomba, tutti con lo sguardo fisso e assente verso la distesa incolore. Noi quattro siamo in piedi in fondo. I passeggeri vicini mettono una monetina in una macchinetta. Facciamo altrettanto. Quelli più avanti, troppo lontani, a uno a uno passano la monetina a Isabella che la passa a me che la passo a Luciana che la passa a Mino. Lui diligentemente la inserisce, gira la rotella e la moneta cade dentro. Non c’è emissione di biglietto. Tutto sulla fiducia.
A me questa situazione sembra buffa, ho voglia di dire una battuta, ma di russo conosco solo DA e nessun’altra parola. Mi balena in mente un’idea: indico l’indaffaratissimo Mino ed esclamo con voce squillante puntando il dito verso di lui:
“STAKANOV !”

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(Per chi non lo sapesse Stakanov è un minatore sovietico totalmente dedito al lavoro, un eroe nazionale).
Udendo questo due passeggeri si voltano, cominciano a ridacchiare in sordina, contagiano gli altri in un’ondata di ilarità e alla fine dentro la vettura esplode una sonora risata generale con scuotimento di spalle sotto i cappottoni.

“Stop! Ferma la macchina da presa! Abbiamo girato una scena da buttare!” Questa è un’invenzione “cinematografica”, mostra solo quanto speravo io nel momento in cui ho fatto il mio exploit. Ricominciamo daccapo, la cruda realtà è la seguente... Esclamo:
“STAKANOV !”
Nessuno intorno muove un muscolo, in un silenzio raggelante tutti guardano la pianura ammantata di betulle pallide che scorre via muta e monotona.

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Finalmente siamo sulla Piazza Rossa, più suggestiva che mai sotto il sottile lenzuolo di neve. Il bianco è interrotto soltanto dagli sprazzi di colore delle cupole a cipolla di San Basilio.
Noi abbiamo in valigia gli abiti leggeri per affrontare i 30-40 gradi dell’India. Per l’occasione dobbiamo correre ai ripari. Io indosso i mutandoni del pigiama sotto i pantaloni e sul busto sette strati di maglie e magliette, l’ultimo è un giaccone pesantissimo foderato di finta pelliccia, tutto sgualcito, che butterò via prima di salire sul secondo aereo.
Gironzoliamo liberi per il centro senza essere mai fermati per un controllo dai poliziotti di ronda a tre a tre. Soltanto quando ci sediamo sui gradini di una scalinata di passaggio, si rivolgono a noi e ci fanno cenno di alzarci.

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Visitiamo i grandi magazzini GUM. Sono sontuosi, eleganti, art deco o roba del genere, tetti a volta e vetrate e ferro battuto. Davanti al macellaio e al panettiere due code, ma niente di chilometrico. A un certo punto sbuca una donnina che spinge un carrettino, si ferma al centro dell’ampia corsia e subito davanti a lei si forma una fila ordinata. La donnina tira su il coperchio e comincia a distribuire il gelato nei coni, uguale per ciascuno, una sola porzione, un solo gusto: vaniglia. Prima di aver soddisfatto tutti i clienti la donnina si ferma: la materia prima è esaurita. Se ne va e ritorna poco dopo con il suo carrettino. Anche noi ci mettiamo in coda e al terzo round siamo serviti. Gustarsi un gelato in pieno inverno a Mosca ci sembra un numero straordinario, in un’epoca in cui da noi le gelaterie con i primi freddi chiudevano i battenti.


Trascorsi tre giorni davvero speciali, partiamo per l’India, dopo la doccia fredda ci aspetta la sauna!
L’atmosfera dell’Unione Sovietica era greve, pesante, cupa, densa, da tagliare con il coltello. Non lo potevano negare neanche i compagni in pellegrinaggio, almeno a sé stessi. Io comunque l’ho apprezzata appieno, mi sembrava tremendamente esotica. Pur avendo a disposizione tutte le parole del vocabolario Zingarelli, due cose sono indescrivibili: l’atmosfera dell’URSS e... l’attraversamento di una strada di Saigon. Ma questa è un’altra storia.

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(di questo viaggio mancano le foto originali)