SULAWESI (INDONESIA) 1994
CADUTA AGLI INFERI

Io e Isabella siamo in Indonesia, nell’isola di Sulawesi (Celebes), che sull’atlante sembra un polpo con quattro tentacoli. Nel cuore del polpo vive il popolo Toraja, conosciuto per le sue grandiose cerimonie funebri.
Qui il defunto viene tenuto in casa per un lungo periodo, anche anni. Conservano il corpo con la formalina, lo profumano e ogni giorno portano dei doni al proprio caro e chiacchierano con lui. Dopo che si è racimolata la somma necessaria, si celebra il funerale e infine la bara viene issata con le corde in grotte e anfratti altissimi e lasciata appesa. Al di sopra, in altre grotte, si affacciano, come fossero su un terrazzo, i Tau Tau, manichini di legno colorati che riproducono le fattezze dei defunti, nei loro abiti consunti dalle intemperie.

Siamo in un piccolo hotel di Tana Toraja, il centro più popoloso, nella speranza che in questo periodo ci sia un funerale coi fiocchi.
Intanto il primo giorno esploriamo la falesia con i Tau Tau, che dall’alto della roccia ci guardano malinconici, come se volessero scendere tra noi. Una scena toccante!

Alla sera a tavola un giovane ci fa il nome di un posto dove l’indomani comincerà un funerale. Si offre come guida, noi glissiamo, preferiamo essere liberi.
Il mattino seguente prendiamo un taxi che in mezz’ora ci porta al villaggio, dove ci lascia. E al ritorno? Qualche cosa faremo.

Il villaggio è un ampio spiazzo rettangolare in mezzo a due file di costruzioni di legno dipinto dall’architettura straordinaria: strette e lunghe, ornate da corna di bufalo, con il tetto a forma di barca. (I Toraja in passato erano grandi navigatori e si spinsero fino al Madagascar.) Sul lato destro solo tre case sopraelevate a palafitta, sostenute da tronchi-pilastro alti tre metri, che delimitano il pianterreno, un vano aperto e ventilato su una piattaforma. Sul lato sinistro i granai, simili alle case ma più piccoli.
Ci sediamo tra la gente, turisti pochi. Affluiscono parenti e conoscenti. Inizia la cerimonia: la defunta nella bara è accompagnata fuori casa, deposta su una portantina a forma di barca, trasportata in corteo e issata sul portale d’ingresso del villaggio a dieci metri d’altezza.


Da quel momento, partendo da lì, le persone nei loro costumi tradizionali più belli percorrono in fila lo spiazzo e, dopo un saluto e un inchino ai famigliari, offrono doni di ogni tipo. Per ore si esibiscono gruppi danzanti e cori al ritmo di caratteristici strumenti musicali. La cerimonia sempre colorata e sorprendente va avanti tutto il dì fino al tramonto, con un lungo intervallo per il pranzo: sono macellati maiali e polli, cucinati lì per lì dietro le case e serviti con verdure, ananas, banane e papaya.
Dopo il tramonto arrivano dei minibus e tanti salgono (tra loro anche noi) per ritornare a Tana Toraja. I parenti restano lì a dormire in costruzioni di bambù e foglie di palma allestite per l’occasione. Eh sì, perché domani si ricomincia e si va avanti per altri quattro giorni. Noi (è il caso di dirlo?) ritorniamo puntuali ogni mattina, e assistiamo a cerimonie sempre diverse, gioiose gradevoli, mai monotone nello scenario delle case di legno, tra costumi musiche danze e...



Per due volte sono protagonisti i bufali. Più uno è ricco e più ne compra. Sono ricchi il figlio e le due figlie della defunta, persone istruite e agiate che vivono a Giava e sono venute al villaggio per onorare la madre.
Un pomeriggio i bufali sono portati su un vastissimo prato e lì combattono e s’incornano tra le urla da stadio della folla.




Il giorno dopo, in un’atmosfera più contenuta, i bufali (una ventina) a uno a uno vengono portati fino a un palo, un fascio di bambù, eretto nel centro dello spiazzo e qui va in scena uno spettacolo tremendo: degli uomini tengono fermo il possente bufalo, che emette versi di lamento e si divincola disperato, e lo legano. Un uomo irrompe impugnando il machete e con un fendente secco gli taglia la gola da cui schizza un getto di sangue. La povera bestia crolla a terra esanime al primo o al secondo colpo. Emozionante e raggelante, terribile! Silenzio intorno. Il bufalo all’istante è scuoiato e macellato sul terreno cosparso di foglie di banano. I pezzi di carne vengono distribuiti agli ospiti. E così alla sera tutti salgono sul minibus col loro sacchetto di plastica insanguinato. Saliamo anche noi, urto inavvertitamente un passeggero e i miei pantaloni si dipingono di rosso.

Si arriva così al quinto giorno. La bara sopra il portale viene calata a terra con le corde e parte il corteo funebre a cui naturalmente ci accodiamo. Usciamo dal villaggio e, mentre percorriamo un sentiero su dolci colline, già immaginiamo la bara issata in qualche grotta sotto i Tau Tau. Invece si arriva a un nucleo di baracche di legno, con le pareti formate da grossi tronchi, senza porte né finestre. A furia di colpi di mazza fanno slittare due o tre tronchi, entrano attraverso l’apertura, per fare posto sistemano meglio le casse che si intravvedono impilate all’interno, e ci infilano la bara con la defunta. Poi sigillano tutto. Il funerale è finito. Siamo un po’ delusi: niente grotta e niente Tau Tau. Chissà perché... Però le sorprese e i motivi di meraviglia non ci sono certo mancati!

La cosa più emozionante ci è capitata il quarto giorno. Al villaggio ormai siamo considerati di famiglia. Chiacchieriamo con la figlia della defunta, una bella donna di nome Cinta, elegante nel suo vestito di seta attillato. Il nostro chiodo fisso è la conservazione del corpo. Le chiediamo da quanto tempo è mancata la mamma. Due anni! E dov’era tenuta? In quale casa? In quale stanza? Cinta ci fa segno di seguirla. Non ci porta nella casa centrale ben restaurata, bensì in quella a fianco più grezza e “autentica”, con le imposte chiuse e apparentemente disabitata. Saliamo per una scala esterna al primo piano, lasciandoci sotto l’ambiente aperto con il pavimento di legno e i pilastri a palafitta. Sopra esploriamo i tre vani. È tutto buio, filtra solo una luce fioca dalle fessure dei tronchi stagionati. Cinta ci precede, io vado avanti alla cieca senza capire niente.

A un tratto gli assi del pavimento cedono di schianto sotto il mio peso, si spalanca un abisso... aiuto! Precipito... un volo di tre metri e crollo sulla piattaforma al piano di sotto!
Una vecchia che fila e una bambina sedute sulla piattaforma mi guardano stupite. Stanno lì a pochi passi, potevo piombare sulla loro testa! Son caduto di schiena sullo zainetto e sono miracolosamente illeso. Neanche un graffio o un dolorino... resto ancora nel mondo dei vivi! (Come posso intitolare l’episodio “dantesco”? Discesa agli inferi? Caduta agli inferi? Per la verità il titolo più appropriato sarebbe semplicemente “Caduta al piano inferiore”!)
Mi rialzo felice. Purtroppo su di sopra non hanno avuto la stessa fortuna: un asse da me schiantato ha fatto lippa e ha colpito la povera Cinta alla fronte, che sanguina. Isabella tampona con le salviette la ferita, una leggera escoriazione, e la signora attonita ci sorride con dolcezza, non serba alcun rancore nei miei confronti.
Questo non basta a cancellare la mia preoccupazione. Ancora adesso, a distanza di tanti anni, mi sveglio di soprassalto sognando il postino che, dopo aver suonato due volte, mi consegna una lettera raccomandata piena di timbri intestata UNESCO, contenente la rogatoria internazionale con allegata fatturazione (cifra a sei zeri) dei danni arrecati da Mr. Giorgio Rivera a un villaggio toraja Patrimonio dell’Umanità.![]()