AUSTRALIA    1994

OUTBACK


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L’OUTBACK è l’anima rossa dell’Australia. FUORI dalla civiltà, DIETRO le coste abitate dai bianchi. Era la terra dei nativi Australiani, che ormai hanno dimenticato il Tempo del Sogno e si aggirano sulle strade a piedi nudi, stracciati e sporchi per spendere in viveri e alcol i sussidi statali.
Una linea retta d’asfalto unisce Darwin a nord e Alice Springs, al centro del continente. Ai lati, piatto e interminabile, un deserto rosso con qualche raro albero. Un paesaggio monotono che si pianta netto nella memoria e non si dimentica più. Io e Isabella abbiamo percorso questa linea retta sui bus Greyhound, viaggiando prima di giorno, poi di notte, quando si incrociano soltanto i camion a 3 cassoni (2 rimorchi) lunghi come treni.

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Arriviamo col bus nel tardo pomeriggio a Tennant Creek, l’ultima tappa prima della corsa notturna fino al centro dell’Australia. È una cittadina da Far West, con le case allineate lungo la Main Street. Solo 3 hotel. Faccio il giro alla ricerca della stanza. Tutti e 3 espongono il cartello NO VACANCY (completo). Vuoi vedere che stavolta passiamo la notte sotto le stelle in compagnia dei canguri? Però sono cocciuto, non mi faccio fermare da un cartello, non si sa mai. Vado alla reception e chiedo: “Do you have a room?”. Sì, la camera c’è. Trovata al primo tentativo! Perché NO VACANCY? Penso per allontanare senza proteste gli aborigeni che si presentano scalzi e con gli abiti logori e impolverati.
Alle dieci, mentre sto entrando in letto, sento fuori il suono di chitarre e batteria. Mi infilo i pantaloni e scendo giù nel cortile dell’hotel: un gruppo rock di quelli duri, cappellacci di cuoio in testa, suona musica pesante per qualche decina di spettatori vestiti come Crocodile Dundee. Mi godo tutto il concerto prima di andare a nanna.

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Giunti alla meta, Alice Springs, noleggiamo un’auto con cui esplorare i territori selvaggi intorno. Finalmente ci spingiamo fino a ULURU, il cuore rosso dell’Australia, un masso grande come una montagna, sacro per i nativi. I bianchi l’hanno soprannominato Ayers Rock e l’hanno sfregiato con un’orrenda cicatrice, una catena che sale fissata a paletti di ferro e favorisce l’ascesa e la discesa dei turisti. A disposizione dei visitatori ci sono vari resort e campeggi, ma quella sera è tutto pieno, non c’è scampo. Prenotiamo una stanza per i 2 giorni successivi e, seguendo le indicazioni che ci danno, ripercorriamo a ritroso la strada già fatta per quasi un’ora.

Mentre si fa buio avvistiamo un distributore di benzina isolato nel deserto, con le pompe bloccate da una catena robusta come quella della roccia sacra. Il proprietario apre il lucchettone ogni volta che arriva un cliente. Gli chiedo una stanza. Ha qualcosa, a quanto capisco dal suo austroinglese. Finiamo in una specie di magazzino sporco e pieno di tutto, con vetrate da fabbrica, ma con un grosso materasso morbido e delle copertacce che ci risolvono la nottata.

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Il giorno seguente torniamo a ULURU, che scaliamo e soprattutto ridiscendiamo indenni grazie alla vituperata catena-cicatrice. L’indomani facciamo il giro, 9 km di circonferenza, che lungo il sentiero ad anello diventano quasi 12. Alla fine la gola è secchissima: per essere più leggeri non abbiamo portato acqua. Che furbi!

Con l’auto viaggiamo fino al Kings Canyon, percorrendo un lungo tratto di sterrato con le strisce trasversali di sabbia portata dal vento che fanno vibrare tutto. E poi il trekking sul Kings Canyon, rocce rosse a strapiombo su un fiume inesistente se non piove. Questo è l’OUTBACK!

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Eh sì, potete dire che siamo degli sprovveduti, però abbiamo riportato a casa la pellaccia, non siamo spariti sul monte come la fanciulla sognatrice dopo il Picnic ad Hanging Rock...
(Non avete visto questo film ambientato in Australia? Vivete tranquilli, non l’ha visto quasi nessuno!)

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