KERALA (INDIA)    2009

LA GIOSTRA DEGLI ELEFANTI


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Sto viaggiando da solo nell’India del Sud. Per gli spostamenti uso le corriere locali che percorrono anche grandi distanze tra città e città. Da Bombay sono sceso fino alla punta meridionale del paese. Ora risalgo lungo la costa occidentale. Sono nel Kerala, un territorio attraversato da mille canali in mezzo alla foresta lussureggiante.

A Cochin, un porto su un’isola, vengo a sapere che l’indomani nel tempio di Shiva ci sarà un’importante cerimonia con gli elefanti. Purtroppo è dall’altra parte della città, sul “continente”, e per raggiungerlo posso prendere il traghetto oppure percorrere in taxi 6 chilometri di strada con due ponti. Il mattino seguente mi muovo con il traghetto, molto più comodo. Bighellono per qualche ora nel quartiere e verso le 5 mi dirigo alla meta.

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Davanti al tempio si estende un vastissimo spazio pieno fino all’inverosimile di gente, donne con sari variopinti, bambini, facce scure sorridenti, musica, gran confusione. Nelle bancarelle su due file si vende di tutto, dalla statuetta del dio Ganesh ai samosa (delle frittelle gustose). È come una nostra festa paesana moltiplicata per cento, facendo le debite proporzioni con la popolazione indiana.

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Al tempio stanno preparando i tre elefanti. Prima li lavano con la manichetta come fossero automobili, poi li vestono con bardature dorate e barocche.
Sul far della sera inizia la cerimonia. I tre bestioni vengono portati in processione dentro la corte interna a cielo aperto, circondata sui quattro lati dagli spioventi del tempio, dove nel frattempo mi sono seduto in un punto strategico assieme a tanta altra gente per vedere tutto. Tre uomini conducono da terra ogni elefante, altri due, uno con il tridente di Shiva e uno con l’ombrello, sono in groppa all’animale. Costumi, parasoli, bardature... è un tripudio di colori! La cerimonia si svolge così: i suonatori (trombette e tamburi) danno il via con il loro ritmo, gli elefanti percorrono un lato della corte e a metà si fermano davanti al tempietto interno (ce ne sono quattro, uno per lato e punto cardinale). Qui, a suon di musica, sul pachiderma uno fa oscillare il tridente, l’altro apre e chiude tre volte l’ombrello. Dal tempietto esce un brahmano, un sacerdote con la testa rasata, tre linee bianche sulla fronte e la veste gialla. Segue preghiera e benedizione. Tutto ripetuto per tre volte, una per elefante.

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La cerimonia va avanti così, sempre uguale, gli elefanti procedono di tempietto in tempietto in senso antiorario e continuano a girare intorno alla corte in una specie di moto perpetuo con soste lunghissime. Io sto lì al mio posto. Quando assisto a un evento per me straordinario non mollo, voglio rimanere fino alla fine. Questa sera, anzi questa notte mi dimentico tutto, anche la cena, e resto lì incantato per ore e ore, sempre con l’idea che il rito ormai stia per finire.
A un certo punto, come risvegliandomi dal sonno, aprendo bene gli occhi mi rendo conto che nel tempio sono rimasti in pochi, proprio quattro gatti. Faccio la conta: sono più gli addetti agli elefanti che gli spettatori! Finalmente guardo l’orologio: è mezzanotte e mezza!
Aiuto! Ho esagerato. Mi alzo, esco dal tempio: lo spiazzo vastissimo, prima brulicante di gente, è completamente buio e deserto. Le bancarelle sono solo tavolacci con un tettuccio. Niente. Nessuno.

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Come ritornare in albergo? Il traghetto è di sicuro fermo. Non mi resta che il lungo tragitto via terra. Percorro nelle tenebre i 200 metri che mi separano dalla strada principale, prima intasata dalle auto strombazzanti: è vuota, silenziosa, illuminata a malapena da luci livide. Dal fondo del rettilineo arriva un’Ape-taxi. La fermo e faccio il nome dell’hotel. Il conducente brontola qualcosa e se ne va (a dormire). Non passa più nessuno. Dopo alcuni interminabili minuti vedo spuntare i fari di un’altra Ape-taxi. Agito la mano. Questa volta il ragazzo alla guida mi fa salire dietro. Mi attendono oltre 6 chilometri di corsa. Soli nella notte, sfrecciamo col rumore lamentoso del motore nei timpani: un ponte, il secondo ponte, l’isola, i vicoli e finalmente giungiamo al sospirato alberghetto. Scendo. È chiuso, sbarrato! Col batticuore busso forte. Aspetto. Sento i passi, il custode apre la porta, mi guarda strano con occhi da sonno interrotto e mi fa entrare. Alleluia! La cerimonia è finita, rendiamo grazie a Shiva!

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